La valvola termoionica

Cenni storici

Come alcune delle più importanti scoperte in campo scientifico, anche la valvola termoionica venne messa appunto, per successivi passaggi casuali, grazie alle scoperte di alcuni ricercatori americani. Furono necessari due decenni dalla prima sperimentazione avvenuta nel 1883 fino alla versione quasi definitiva del triodo datato1907.

Certamente non ricordo quando io vidi per la prima volta una valvola termoionica, presumibilmente negli anni ’70 quando l’elettronica era ancora un’arte e si rendevano necessari gli interventi di riparazione dei televisori direttamente a domicilio. Sbirciando all’interno della magica scatola, sapientemente esplorata dai bravi tecnici radio-TV, s’intravedeva una luce rossastra provenire dall’interno del televisore. La prima banale considerazione che feci fu che il “magico” televisore altro non era se non che un’enorme lampadina emanante, però, una strana luce rossa. Negli anni successivi scoprii che non era esattamente così e che la luce rossa aveva un suo preciso significato (lo scopriremo insieme in questo capitolo), ma che comunque vi era una forte correlazione tra lampadine e valvole. La prima sperimentazione attorno al dispositivo termoionico inizia nel 1883 con Thomas Edison.

Edison era stato, tra l’altro, proprio l’inventore della lampadina a filamento di carbone (1878) oltre ad aver ideato il microfono a carbone (1876) ed il fonografo (1877). Nel 1882 progettò e realizzò anche la prima centrale elettrica della città di New York.

Intorno al 1883, infine, pose attenzione a quello strano fenomeno rappresentato dall’annerimento del bulbo di vetro che si verificava dopo alcune ore di funzionamento della “sua” lampadina. Egli non intuì subito la ragione del fenomeno, ma nell’intento di raccogliere le particelle responsabili di tale annerimento collocò un foglietto metallico nel bulbo della lampadina.

Inizialmente non ne ricavò molto, riuscì soltanto ad osservare che, se si poneva il foglietto metallico ad un potenziale positivo, lo stesso iniziava ad essere attraversato da corrente elettrica. La scoperta era fatta, ma nessuno, Edison compreso, riuscì a dare una spiegazione scientifica all’evento che restò un mistero per più di vent’anni. Oggi siamo in grado di spiegare il perché di questo fenomeno che è dovuto agli elettroni liberati dal filamento incandescente e catturati dall’elettrodo metallico negativo. Vista la natura termica del fenomeno fu scelto l’appellativo di “effetto termoionico di Edison-Richardson”.

Contemporaneamente ad Edison, però, un altro eccellente ricercatore, Flemming, si applicò allo studio dello stesso fenomeno, sviluppando una versione migliorata del rivelatore di onde elettriche. Nel 1904 tale invenzione fu brevettata con il nome di “Oscillation Valve”, poiché permetteva il flusso di corrente elettrica in una sola direzione. Schematicamente l’invenzione di Flemming può essere rappresentata così:


Ovviamente il filamento e l’anodo erano entrambi racchiusi da un involucro di vetro sottovuoto per evitare che bruciassero. L’anodo ha potenziale positivo rispetto al catodo. Il cilindro metallico (l’anodo) è anche comunemente chiamato “placca”. Dunque, nel dispositivo di Flemming, al surriscaldarsi del catodo iniziava a scorrere corrente nella placca (anodo). Il simbolo circuitale del dispositivo brevettato da Flemming, valido tutt’oggi, è il seguente:

Quello appena esaminato è il diodo termonionico, non la valvola. Esso rappresenta, per così dire, un primo passaggio della scoperta che porterà successivamente alla valvola termoionica. Personalmente ho dovuto faticare un bel po’ per trovare le giuste informazioni che ci consentiranno di comprendere appieno gli stadi evolutivi della scoperta della “valvola termoionica”, è quindi necessario adesso spendere “due parole” circa le caratteristiche, che furono riscontrate studiando attentamente il diodo termoionico di Flemming.

Una delle prime caratteristiche riscontrate era che, anche in assenza di tensione sul catodo, si registrava una corrente, anche se molto piccola, sull’anodo. Tale corrente era (breve nota: adesso parlerò al “passato”, per esigenze linguistiche, ma tali deduzioni sono perfettamente valide oggi, quindi forse sarebbe stato più opportuno usare l’indicativo presente) causata dagli elettroni del materiale che costituivano il filamento e che, in virtù dell’energia cinetica accumulata, fuoriuscivano dalla superficie del catodo e raggiungevano, anche se in minima parte, l’anodo. Non appena, poi, l’anodo veniva portato a potenziale positivo rispetto al catodo, iniziava a scorrere una corrente ben maggiore. Tuttavia ci si accorse presto che, delle particelle emesse, non tutte raggiungevano l’anodo a causa della repulsione causata dalla “nube di carica negativa” presente nella regione esistente tra catodo ed anodo. Tale regione svolgeva, in effetti, una forte azione inibitrice sull’emissione di particelle, cioè sulla corrente. Man mano che aumentava il differenziale di potenziale tra anodo e catodo si registrava un indebolimento di tale effetto e la conduzione di corrente elettrica diventava maggiore. Se l’anodo, poi, veniva portato a potenziale negativo rispetto al catodo gli elettroni emessi venivano respinti dall’anodo e per valori sufficientemente ampi non si osservava addirittura nessuna corrente sull’anodo.

In sintesi le caratteristiche riscontrate sul diodo termoionico di Flemming sono:
- in assenzadi tensione sul catodo si registra una piccola corrente sull’anodo;
- se l’anodo è portato a tensione positiva rispetto al catodo inizia a scorrere corrente elettrica;
- se l’anodo è portato a tensione negativa rispetto al catodo non si registra nessuna corrente, neanche quella inversa di saturazione;

Nota personale: chiederei adesso ai miei pochi lettori, che comunque stanno aumentando, di non proseguire nella lettura del capitolo se non sono sufficientemente chiare le considerazioni fin qui espresse, poiché le ritengo basilari per la comprensione dell’esatto funzionamento della valvola termoionica. Inviterei tutti a riflettere per almeno cinque minuti su quanto detto.

1’ …….2’ ……….3’ ………..4’ ………..5’…….andiamo avanti

Nei diodi termonionici, quindi, la presenza di corrente inversa (quella esistente anche in assenza di tensione nel dispositivo causata dagli elettroni del materiale costituenti il filamento) dipende dalle caratteristiche costruttive e dai materiali impiegati e può comunque essere controllata fornendo tensione negativa all’anodo. Vedremo, invece, che nei diodi a giunzione, che esamineremo nel capitolo dedicato al transistor bjt, la presenza di portatori minoritari di origine termica è connaturata alla struttura stessa del dispositivo e non può essere controllata.

Esaminate le caratteristiche del diodo termoionico arriviamo, adesso, ad illustrare quella che fu la sua “naturale” evoluzione. Naturale fra virgolette, poiché tale scoperta poteva anche non avvenire mai, non che fosse, poi, così scontata….

La valvola termoionica.

Quattro anni dopo, nel 1907, Lee de Forest, prendendo spunto dal dispositivo di Flemming, aggiunse un terzo elettrodo al diodo termoionico. Egli interpose una spirale metallica, denominata successivamente griglia, tra anodo e catodo. Tale dispositivo fu denominato Triodo. La funzione svolta dalla griglia era quella di respingere una parte degli “elettroni catodici”, mente un’altra parte riusciva normalmente a raggiungere l’anodo. Il potenziale di griglia era negativo rispetto al catodo e tanto più tale potenziale era negativo, tanto più elevato era il campo elettrico che impediva agli elettroni di raggiungere l’anodo, quindi minore era la corrente presente sull’anodo e viceversa. Il punto di taglio, detto di “cut off” era quello per cui la tensione negativa applicata alla griglia impediva ogni passaggio di corrente. Il viceversa vuol dire che se si diminuiva la negatività della tensione griglia/catodo rispetto all’anodo, aumentava la corrente presente su quadt’ultimo. Tale aumento non è ovviamente illimitato, dipende dalle caratteristiche intrinseche del dispositivo ed esprime la qualità dalla valvola.

Considerando adesso un segnale di ingresso come tensione fornita alla griglia; è facile comprendere come il triodo sia in realtà un dispositivo di amplificazione del segnale, che restituisce corrente in uscita, corrente modulata sul segnale d’ingresso.

Riepilogando: la valvola termoionica è un dispositivo amplificatore di tensione, cioè è comandato in tensione, ha un’elevatissima impedenza d’ingresso ed è particolarmente indicato nell’amplificazione di dispositivi piezoelettrici o di microfoni a condensatori.

Lo schema del triodo di Lee de Forest è il seguente:

(La griglia è quella spirale posta intorno al catodo che nel dispositivo iniziale di Lee de Forest coincideva con il filamento. Spero davvero che il grafico riesca a rendere l’idea).

Il simbolo circuitale della valvola termoionica “triodo” è il seguente:

La relazione tra tensione di griglia (sull’asse delle ascisse) e corrente anodica (sull’asse delle ordinate) genera il seguente diagramma cartesiano:

La presenza di “corrente di saturazione inversa” giustifica la presenza della relazione, anche se minima, nel IV quadrante per tensioni griglia/catodo negative. Il punto a indica, invece, il livello di cut-off che inibisce il passaggio di corrente. Tale valore non è fisso, ma dipende dalle caratteristiche intrinseche della valvola. Al crescere della tensione griglia/catodo cresce la corrente anodica in maniera più o meno lineare (anche tale accrescimento dipende dalle caratteristiche della valvola) fino ad un certo livello, poi la crescita diventa meno pronunciata ed infine si arresta. Il punto di crescita 0 è detto di saturazione. E’ in prossimità di tale punto che la valvola inizia a distorcere il segnale arricchendo il suono di armoniche prevalentemente pari che gli conferiscono un tono piuttosto colorito e caldo.

Il parametro di qualità del triodo è la transconduttanza ossia il rapporto tra Delta della corrente anodica e Delta della tensione di griglia, dove Delta indica l’entità della variazione. In parole più semplici se ottengo un’elevata corrente sull’anodo ad una piccola variazione della tensione sulla griglia, vuol dire che la valvola che sto utilizzando ha una grande capacita di amplificazione, cioè di ingrandire il segnale di ingresso. Tutto ciò si indica con il nome di transconduttanza (che letteralmente vuol dire “passaggio attraverso”).

Torniamo, adesso sul sentiero dell’evoluzione della valvola termoionica. Le prime valvole realizzate impiegavano dei catodi realizzati con tungsteno incandescente del tutto simili a quelli utilizzati per costruire le lampadine poiché la valvola nasce casualmente come diodo proprio dall’inventore della lampadina (Edison). Occorreva raggiungere, però, i 2300 K° per ottenere un livello soddisfacente di emissione elettronica. Tali valvole richiedevano, così, elevatissime potenze di riscaldamento del catodo e duravano assai poco. La successiva evoluzione fu quella di utilizzare un filamento non più di tungsteno, ma costituito da ossidi di bario e stronzio capaci di raggiungere emissioni elettroniche a temperature molto più basse (intorno ai 1000 K°) che corrispondono, per la cronaca, ad un livello di emissione ottica nel colore rosso (svelato il mistero della calda luce valvolare).

Successivo affinamento, nella progettazione tecnica, fu rappresentato dall’utilizzare, per il riscaldamento del catodo, non più correnti continue, bensì alternate direttamente disponibili dal trasformatore di rete. Tale scelta rivelò, però, ben presto un inconveniente: un’eco della tensione alternata appariva sul segnale d’ingresso generando un disturbo a frequenza dei 50 Hz, poiché ad essere determinante, nella valvola, è la tensione di griglia riferita al potenziale del catodo. Si sperimentò così il riscaldamento indiretto del catodo. Quest’ultimo veniva isolato elettricamente da un filamento posto molto vicino che aveva il compito di riscaldarlo. Il catodo non veniva interessato, così, da alcuna corrente alternata e non si generava nessun disturbo sul segnale d’ingresso. Unico svantaggio riscontrato fu quello che erano necessari alcuni secondi (una decina) prima che il catodo venisse riscaldato e iniziasse a funzionare correttamente. Tale caratteristica permane ancora oggi nelle valvole comunemente impiegate che sono tutte riscaldate indirettamente.

Il simbolo circuitale, che troviamo in tutti gli schemi di amplificatori, di un triodo a riscaldamento indiretto è il seguente:

Il pentodo.

Negli anni di prima applicazione del triodo, soprattutto nei dispositivi radio, si evidenziò subito che un grande limite di tale apparecchiatura era rappresentato dallo scarso guadagno che si riusciva a fornire alle alte frequenze. Le alte frequenze venivano amplificate in misura non soddisfacente soprattutto in relazione alle esigenze di ottenere apparati radio efficaci. Molti amplificatori entravano addirittura in oscillazione generando segnali di disturbo. Tutto ciò era determinato dalla scarsa capacità anodo/griglia. Tale difficoltà fu superata frapponendo una seconda griglia tra catodo ed anodo che costituiva uno schermo elettrostatico tra anodo e griglia primaria.

Tale seconda griglia veniva tenuta ad un potenziale positivo vicino a quello dell’anodo per non ostacolare in nessun modo il flusso di elettroni, ma veniva connessa a massa tramite un condensatore in modo da rappresentare un’attrattiva per i segnali alternativi evitando, così, che questi giungessero sull’anodo.
Tali valvole furono chiamate tetrodi per la presenza di quattro elettrodi:
catodo;
griglia primaria; (griglia controllo)
griglia secondaria (griglia schermo);
anodo.

Anche il tetrodo, però, presentava degli inconvenienti: il flusso di elettroni che giungeva sull’anodo generava, nell’impatto con l’anodo, una serie di distacchi di elettroni. Tale fenomeno fu detto “emissione secondaria”. Questo fenomeno avviene sempre, anche nel triodo, ma nel tetrodo gli elettroni venivano catturati dalla seconda griglia che aumentava, così, l’opposizione al passaggio di corrente catodica e diminuiva la stessa e la relativa capacità di amplificazione.

Una soluzione immediatamente adottata fu quella di utilizzare armature a fascio focalizzanti che impedivano agli elettroni che si distaccavano dall’anodo di finire sulla seconda griglia e di innescare il processo negativo di indesiderata schermatura. Le valvole con armatura a fascio, dette appunto tetrodi a fascio sono state largamente utilizzate negli stadi di uscita degli amplificatori audio fino agli anni ‘60. Tra le più note ricordiamo la KT77 e la 6L6.

Seconda soluzione al problema dell’abbassamento del livello di amplificazione presentato dal tetrodo, fu quella dell’introduzione di una terza griglia, detta griglia di soppressione, collocata tra la griglia schermo e l’anodo che veniva connessa al catodo. L’effetto di tale terza griglia era quello di respingere gli elettroni generatisi per distacco dall’anodo e permettere agli elettroni con più alto livello di energia di passare attraverso la griglia schermo per giungere verso l’anodo. Tale dispositivo fu appunto denominato pentodo per la presenza di cinque elettrodi. La successiva sperimentazione ha rivelato, però, alcune negatività del dispositivo a pentodo. Questo, infatti, non ha caratteristiche migliori in assoluto, poiché presenta un livello di rumore decisamente più elevato rispetto al triodo ed al tetrodo che non lo fa sempre preferire nelle applicazioni Hi-Fi.

Se non si necessita, ad esempio, di alte potenze ricorrere al pentodo è sicuramente una scelta inopportuna, poiché si va ad assoluto discapito della qualità del segnale in uscita.

Abbiamo, fin qui , ripercorso l’evoluzione progettuale della valvola termoionica. Vediamo adesso assai brevemente e da un punto di vista concettuale, che diverrà pian piano più tecnico, l’inserimento di tale dispositivo nella struttura amplificativa vera e propria.

Un amplificatore di potenza si compone idealmente di tre stadi fondamentali (tralasciamo adesso gli eventuali altri stadi: preamplificatore, controlli di tono e volume ed altri stadi eventuali come “blocco di riverbero” e altre diavolerie che a noi audiofili non interessano assolutamente):

il primo stadio detto pilota;
il secondo stadio detto invertitore di fase (presente solo nei circuiti push pull);
il terzo stadio detto finale di potenza.

L’invertitore di fase produce due segnali in uscita, uno dei quali è fuori fase di 180° rispetto all’altro. La tensione di questi due segnali è amplificata dallo stadio pilota. Le valvole impiegate nel separatore di fase vengono spesso utilizzate anche per ottenere l’amplificazione della tensione, perciò si può utilizzare un solo passaggio per ottenere i due stadi che risultano così combinati.

Nello stadio di potenza si utilizzano una o più valvole per convertire la tensione del segnale di ingresso in flusso di corrente. Tale corrente, divenuta così alternata poiché modula il segnale di ingresso, viene infine condotta attraverso un trasformatore detto di uscita (T.U.) ed inviata finalmente ai diffusori. Come ho già precedentemente affermato un amplificatore non è mai neutro rispetto al segnale che va ad ingrandire: ogni dispositivo amplificante aggiunge al suono caratteristiche proprie, il segnale di ingresso non è mai la perfetta proiezione in potenza del segnale di uscita. Tutti i dispositivi di amplificazione accrescono il segnale avuto in input a scapito di una fonte di energia e fino ad un livello massimo. In prossimità di tale livello massimo, essi riducono drasticamente l’accrescimento in potenza iniziando ad aggiungere sempre più frequenze “spurie” indesiderate, in altre parole distorcono il segnale originario. Un amplificatore a valvole portato al suo livello di volume critico (questo dipende ovviamente da valvola a valvola) inizia a distorcere in modo tipico. (Vedi diagramma corrente anodica tensione griglia/catodo).

Tipico vuol dire che il suono diviene ricco e caldo grazie alla preponderanza di armoniche pari. Tale effetto “distorsivo” è molto ricercato in alcune applicazioni come ad esempio l’amplificazione di chitarre elettriche o bassi elettrici. Negli amplificatori a transistor, invece, l’effetto “distorsivo” risulta sempre sgradevole poiché gli “stati solidi” tendono a produrre in distorsione soprattutto armoniche dispari. Nel campo hi-fi, cui noi facciamo sempre riferimento, non si ha grande interesse alle caratteristiche del suono valvolare in distorsione (tanto meno alle caratteristiche del suono transistor in distorsione) poiché la distorsione è semplicemente una condizione da evitare, mai gradita, oserei dire una “patologia” dei sistemi di riproduzione.

Una breve panoramica sul tipo di valvole esistenti ed impiegate ci porta ad una veloce classificazione delle stesse in :

valvole preamplificatrici: preamplificano il segnale di ingresso. Le più usate sono le 12AX7 note come ECC83. Hanno un maggior guadagno ed un suono particolarmente brillante;

valvole sfasatrici: pilotano il finale di potenza, le più note sono le ECC81, le 12AT7 e le 6201. Anche la 12AX7 (ECC83) può essere usata come sfasatrice poiché garantisce un suono più aggressivo e compresso (tale scelta dovrebbe essere quella adottata su Ella);

valvole rettificatrici: sono utilizzate per trasformare la corrente da alternata in continua all’interno dell’apparecchiatura (non si dimentiche la vocazione di diodi delle valvole poiché esse non sono altro che una evoluzione dei diodi stessi). La più usata è la GZ34 denominata in USA 5AR4 (dimenticavo di dirVi che la dizione americana di valvole e transistor è diversa da quella europea, vedremo in seguito…); l’utilizzo di valvole al posto di diodi o raddrizzatrici per ottenere corrente in continua causa, però, una lieve diminuzione di potenza nell’ampli a fronte di un suono più morbido e più carico di armoniche;

valvole finali: sono utilizzate per realizzare l’accrescimento vero e proprio del segnale . I modelli maggiormente utilizzati sono la 6L6 e la EL34. Le 6L6 sono maggiormente brillanti e tendenzialmente lineari e hanno un buon margine di pulizia prima di saturare. Le EL34 sono, invece, più grintose con maggior enfasi sugli estremi di banda ed una maggio attitudine alla distorsione. Anche le EL84 sono molto ricercate per i bassi morbidi le medie bronzate e gli acuti trasparenti.

Personalmente ho in uso proprio quest’ultime sul mio Antique Sound Lab IQ15 e posso tranquillamente confermare, per esperienza diretta, quanto appena affermato.

Concluderei adesso questo VII capitolo rivolgendo alcune interessanti (si spera) domande ad Alessandro Coppi circa l’utilizzo di quali tipi valvole e svolgenti quali funzioni nei progetti Ella, Celeste, Tigrone e Profane. Poi chiederei quali sono state le difficoltà progettuali incontrate nel coniugare stadi pilota a valvole e stadi finali a transistor, quali sono stati i vantaggi nel coniugare valvole e transistor ed infine di illustrarci, assai brevemente, i principali problemi riscontrati nella stabilizzazione termica dei progetti Ella e Celeste (tale aspetto sarà affrontato più approfonditamente nei capitoli successivi)

Aspettando le preziosissime delucidazioni del “progettista”, Vi saluto e Vi rimando al prossimo Capitolo, l’ottavo, dove ci occuperemo di un altro dispositivo di amplificazione, il Fet.

Roberto De Laurentiis - email: Klf20@virgilio.it  

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